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Le Storie. Ronit e l’Olocausto — Giovazoom

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Partecipazione

Ci hanno parlato dell’esperienza della giovane ventottenne ebrea israeliana Ronit Matar, da otto anni a Bologna, a margine dell’Infoday Erasmus Plus svoltosi lo scorso 21 novembre 2017. L’occasione è stata la presentazione di Elena Monicelli, coordinatrice della Fondazione Scuola di Pace di Monte Sole, che ha illustrato il progetto sostenuto anche dalla Regione Emilia-Romagna chiamato “Campo di pace a 4 voci”, un progetto di dialogo tra giovani italiani, israeliani, palestinesi e tedeschi. In E’ diretta e acuta Ronit da poco laureatasi in diritto umanitario e diritti umani e che ormai da otto anni vive a Bologna tanto da sentirsi, ci rivela, un po’ emiliana “anche se dubito di poter mai ottenere la vostra cittadinanza italiana…”

Da Haifa si è trasferita a Bologna per studiare antropologia all’età di vent’anni dopo aver partecipato a un campo internazionale organizzato dalla Scuola di Pace di Monte Sole.
“Allora frequentavo il penultimo anno del liceo – ricorda – e grazie alla mia scuola svolsi un progetto in un kibbutz presso un centro umanistico dove riflettere sul significato dell’Olocausto insieme a studenti arabi e palestinesi della regione di Haifa e della Galilea. Alla fine dell’iniziativa dieci di noi ebbero l’opportunità di volare in Italia e partecipare a un’esperienza di dialogo con giovani italiani e tedeschi presso la Scuola di Pace di Monte Sole.”

Cosa ricordi di quella prima esperienza a Monte Sole?
Furono due settimane emotivamente molto forti sia per i temi trattati che per i legami che si crearono tra noi ragazzi, in particolare tra noi ebrei israeliani, arabi e palestinesi che abitano in Israele perché proprio mentre eravamo a Monte Sole divampò il confitto libano-israeliano e le nostre case ad Haifa e nella Gelilea furono colpite.
Ricordo che in questa situazione così delicata le educatrici, che ora sono mie grandi amiche, riuscirono a farci confrontare sul tema del conflitto facendoci lavorare a partire dalla nostra memoria individuale e familiare.

Nel tuo caso cosa ti è stato tramandato dell’Olocausto dai tuoi nonni e dai tuoi genitori?
I miei nonni vissero la persecuzione nazista sulla loro pelle: tutti i famigliari dei miei nonni paterni furono ammazzati, mentre loro scapparono in Israele. La nonna materna invece sopravvisse durante le persecuzioni nascondendosi in un buco scavato nella terra, mentre il nonno si è trovato partigiano di fatto riuscendo a sopravvivere nelle foreste e a lottare. Poi si spostarono per qualche tempo in Italia e da qui emigrarono in Israele.
In casa, soprattutto dalla parte di mio padre, si respira un certo senso di paura per quel che potrebbe ancora accadere a noi ebrei fuori da Israele, ma devo dire che in famiglia non c’è mai stata strumentalizzazione dell’Olocausto e sono stata educata ai valori universali umani.

Cosa intendi dire per strumentalizzazione dell’Olocausto?
La questione è complessa. Spesso quando qualcuno critica lo Stato di Israele viene tout court etichettato come antisemita. Purtroppo l’antisemitismo esiste e ci sono senz’altro casi in cui è chiaramente sotteso alle critiche e alle accuse fatte allo Stato di Israele. Vorrei però credere e sperare che questi casi siano l’eccezione e non la regola. Pertanto non ritengo corretto utilizzare l’Olocausto sempre e comunque per zittire certe critiche e opinioni che sono normali in una società democratica com’è la nostra israeliana.

Dopo il campo del 2006 perché hai scelto di frequentare l’università a Bologna?
Terminati i due anni di servizio militare obbligatorio che fortunatamente ho svolto in una piccola unità occupandomi di sostegno sociale, ho deciso di studiare antropologia e volevo farlo fuori da Israele. Ero già stata a Bologna, mi ero trovata ben accolta, avevo stretto amicizia con le educatrici della Scuola di Pace e con alcune ragazze così ho deciso di iscrivermi qui all’Università dove tra l’altro aveva studiato anche mia madre.

Mentre studiavi hai continuato a tenere contatti con la realtà di Monte Sole?
Sì in questi anni di università e di master (ho frequentato al S. Anna di Pisa il master in Diritti Umani e Risoluzione dei Conflitti) la Scuola di Pace ha sempre rappresentato un importante punto di riferimento per me sia dal punto di vista affettivo che per le tematiche affrontate nei miei studi. Ho partecipato a varie iniziative e la scorsa estate ho preso parte, questa volta come educatrice, al Campo Pace a 4 voci finanziato dal programma europeo Erasmus+, con il sostegno della Regione Emilia Romagna.

Come ti sei trovata in questo tuo nuovo ruolo?
E’ un’esperienza che mi ha arricchito molto perché non solo ho seguito i ragazzi israeliani partecipanti, sia ebrei che arabi, ma nel contempo, avendo vissuto quasi otto anni a Bologna, sono riuscita anche a capire un po’ meglio il punto di vista dei ragazzi italiani.

Proprio sulla base della tua esperienza sia personale che di educatrice come ritieni si pongano i tuoi coetanei italiani sul tema dell’Olocausto?
In questi anni ho notato che qui in Emilia l’attenzione è soprattutto rivolta alla Resistenza. Si parla molto di antifascismo, di lotta partigiana, dimenticando le responsabilità che comunque anche qui ci furono all’ascesa di Mussolini, al colonialismo, al dramma delle leggi antisemite, alla deportazione degli Ebrei e delle persone Sinti e Rom. Al contrario dei ragazzi tedeschi che sentono in modo a volte anche eccessivo il senso di responsabilità per le atrocità naziste non mi sembra ci sia altrettanta consapevolezza da parte dei miei coetanei italiani dei crimini fascisti commessi contro Ebrei, Rom e Sinti, contro le persone gay, e contro le persone nelle colonie italiane. Tutte tematiche di assoluta rilevanza per la nostra realtà di oggi, per combattere contro xenofobia, razzismo, sessismo, omofobia, transfobia che sono presenti nelle nostre società. Noto insomma un certo appiattimento storico che citavo anche all’inizio e di cui purtroppo anch’io in quanto ebrea israeliana pago un po’ le conseguenze.

Ti riferisci a episodi di intolleranza di cui sei stata vittima?
Non in senso stretto. E’ che spesso per il solo fatto di essere ebrea israeliana vengo superficialmente etichettata come necessariamente anti palestinese e pro le colonie israeliane e in generale sostenitrice delle politiche del governo attuale, mentre come me sono tanti gli israeliani attivisti che si oppongono alla violazione dei diritti umani e alle ingiustizie. Ho tanti amici che ad esempio si impegnano in prima linea con varie ONG in Israele.

Hai mai pensato di fare anche tu questa scelta tornando in Israele?
Attualmente ho appena concluso all’Università di Essex a Colchester in UK la mia laurea magistrale in Diritto umanitario e diritti umani e sto valutando di svolgere un dottorato, impegnandomi in un attivismo accademico che però non esclude un mio coinvolgimento diretto anche in iniziative in Israele. Sono progetti complementari perché è su vari fronti che bisogna agire per far sì che i diritti umani si affermino a livello nazionale e internazionale.
Senz’altro se non avessi avuto l’opportunità di partecipare a progetti di educazione alla pace prima nella mia scuola in Israele e poi a Monte Sole non avrei intrapreso certi studi e oggi non sarei la Ronit che sono. Devo molto anche alla mia famiglia e in particolare a mio nonno materno che mi ha sempre detto che la cosa più importante nella vita è essere un “mentsch”, una parola in Yiddish che significa proprio essere una persona, un uomo, (oggi direi donna) che ha responsabilità verso l’altro e verso tutte le cose che fa.

Vorrei che altri ragazzi e ragazze in Israele e anche in Europa cogliessero queste stesse opportunità perché insieme potremo costruire un mondo migliore.

Fonte: Le Storie. Ronit e l’Olocausto — Giovazoom