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Haute Couture vs Fast Fashion: il sopravvento di Zara

QUANTI DI NOI hanno considerato almeno una volta i capi d’abbigliamento di Zara molto simili agli originali provenienti dal mondo dell’haute couture? Chi è consapevole del fatto che Amancio Ortega Dona, proprietario di Zara, sa ben coordinare una discreta qualità del sistema di produzione tessile alla fedele riproduzione dell’ultima tendenza di alta moda, probabilmente neanche ipotizza che il suo marchio faccia parte della lista nera dei fast fashion brands.

Nel lontano 1974 a Galizia in Spagna, Ortega decise di introdurre i cosiddetti ‘freshly baked clothes’ nell’industria della moda con Zara, e si crede che sia stato il primo a generare un modello di business soddisfacente nel settore, seguendo uno dei principi cardine della sua attività commerciale: “l’idea di offrire le ultime mode a prezzi bassi, creando una formula per ridurre i costi”.

Il termine inglese ‘freshly baked clothes’ indica tutte le catene di fast fashion brands produttrici di capi d’abbigliamento sempre al passo con le tendenze che cambiano velocemente nel tempo, e che sono in grado di creare nuovi design ogni una o due settimane, a differenza dei marchi di alta moda che impiegano sei mesi per dare alla luce le proprie collezioni più autentiche; i marchi fast fashion più famosi e cliccati sul web sono Zara, H&M, Stradivarius, Mango e Pull&Bear.  

Zara si distacca dalla filosofia sbagliata con cui gli altri brand della sua stessa categoria operano, in quanto ha adottato una tecnica di produzione eco-friendly che comprende l’ampio utilizzo di pannelli solari e energia eolica; ciò dimostra grande responsabilità nei confronti dell’ambiente e attenzione alle preoccupazioni riguardanti l’inquinamento condivise a livello globale. I suoi capi vantano di essere 100% toxin free.

Ma allora perché Zara rappresenta ancora uno dei più disprezzati fast fashion brand nell’era ecosostenibile contemporanea? Uno dei motivi che può giustificare ciò risale all’intento primordiale dei fast fashion brands di voler democratizzare la moda, cioè portare a un progressivo aumento degli acquisti per via dei prezzi ragionevoli, tanto da generare negli armadi un eccesso difficile da smaltire se non sbarazzandosi dei capi che finiscono annualmente nelle discariche, o peggio, nel mare aperto.

Lo shopping non è più un mezzo per procurarsi beni di prima necessità o di lusso, ma è diventato un gesto fine a sé stesso, privo di significato. E l’unica soluzione che finora si è data per alleggerire il peso di tale problematica, è stata la compravendita online di abiti di seconda mano che possa condurre i consumatori a fare anche solo una minima rivalutazione positiva sul tessuto usato; è importante saper riconoscere il valore dei vestiti e continuare a dare loro una nuova vita, per poterli acquistare o vendere con vero amore e interesse.

E se si desidera donare ciò che non si vuole più indossare? Molti indumenti che doniamo alle associazioni di beneficenza vanno a finire nei mercatini locali dell’usato dei paesi in via di sviluppo, come Haiti; le persone riforniscono le loro case con interi box di vestiti senza conoscerne la provenienza. Ma questo gesto solidale può considerarsi un’opera di bene? Certo che sì, se non fosse che la sovrabbondanza di vestiario gettato in mezzo alle baracche in condizioni igieniche pessime, perlopiù si trasformerà in scarto tessile inquinante.

Tuttavia, ci sono molti siti Internet di e-commerce come la piattaforma di moda cinese Shein, nata nel 2008, che crea slot di 100 articoli estremamente economici per ogni novità sul mercato del fashion, e sfrutta la manodopera a basso costo generando il fenomeno degli ‘sweat shop’, letteralmente ‘botteghe del sudore’; gli operai, donne e uomini, delle industrie tessili in paesi come Cina e Indonesia accettano un salario misero anche per orari extra di lavoro, pur di riuscire a mantenere la propria famiglia.

Una data da ricordare in memoria della tragica morte di 1134 persone in una fabbrica tessile in Bangladesh, a Savar, distretto di Dacca, è il 24 Aprile 2013; la paura degli operai di non essere pagati per un mese intero li fece desistere dal mettersi in salvo, il giorno in cui crollò la struttura del Rana Plaza dove lavoravano non-stop.

Le accuse rivolte ai fast fashion brands sono molteplici: violazione dei diritti fondamentali dell’uomo, sovrabbondante uso di sostanze chimiche come il piombo, plagio e violazione dei dati della privacy. Acquistare senza informarsi o perseverare nel risparmio acquistando da brand che non hanno un’etica fondamentale da rispettare, a lungo andare arrecherebbe ulteriore danno alla società in cui viviamo, perché diffonderebbe ancora di più la crudeltà con cui l’umanità si approccia alla natura e a sé stessa, in primis.

Ma quando è nato il fast fashion? Per poterlo scoprire, bisogna fare un salto negli ‘slop shop’ di inizio ‘900 in cui si vendevano vestiti preconfezionati di seconda mano, a sostituzione di abiti di una certa rilevanza come le uniformi militari ufficiali, che molto spesso non erano su misura.

L’antica storia del fast fashion prosegue con il forzato razionamento, da parte del sistema governativo, delle quantità di tessuto da poter utilizzare che provocò la produzione standardizzata e in serie di capi d’abbigliamento che gridavano ‘risparmio’ da tutte le angolazioni, a partire dagli orli sempre più accorciati delle gonne che assunsero uno stile austero e solidale con la militanza.

Al giorno d’oggi troppo di frequente volano lamentele su quanto i capi di haute couture siano difficili da lavare, o comunque, da preservare intatti con il passare degli anni, ma se si fa caso al fenomeno scatenato dall’accumulo di capi fast fashion ovvero l’obsolescenza programmata, in molti cambierebbero opinione seduta stante. Di cosa si tratta? La definizione esatta sarebbe la rapidità con cui un tessuto di scarsa qualità si rovina dopo aver effettuato più lavaggi con prodotti non adeguati o ‘aggressivi’, e quindi avendone poca cura.

Una percentuale sempre più alta di persone tende a scaricare le colpe sui costi elevati dell’alta moda, a causa della frustrazione di non potersi permettere di indossare tale qualità sopraffina, e molto spesso ciò è dovuto a livelli di reddito bassi che limitano notevolmente il potere d’acquisto. Il fast fashion diviene, così, una consolazione per colmare il vuoto scaturito dall’illusione di sentirsi ricchi, anche comprando abiti in poliestere.

La dura verità è che qualsiasi sia il costo di un capo d’abbigliamento fast fashion, non lo sta pagando realmente il consumatore che si interfaccia al prodotto in vendita, bensì gli operai tessili che hanno diritto a guadagnare soltanto lo 0,6% del prezzo finale di quest’ultimo; questo accade per la divisione delle spese di trasporto, intermediari, personale e tanto altro.

In un mondo di innovazione che dovrebbe difendere i principi equi e solidali, l’epoca della schiavitù moderna e dei salari miseri avrebbe dovuto scomparire da tempo, a favore della tutela dei diritti di tutti i lavoratori che sono stati ingiustamente sfruttati.

Un’ altra delle tante problematiche causate dal fast fashion è il monopolio dei semi per la piantagione di cotone. In Bangladesh, a Punjab, vi sono ettari di terreno che pullulano di cotone cresciuto con l’aiuto di pesticidi cosparsi dai coltivatori; l’uso di queste sostanze chimiche ha fatto ammalare buona parte della popolazione di cancro o altre malattie patologiche neurodegenerative. Inoltre, è stato riscontrato un aumento nel tasso di suicidi nei campi di cotone per via del lavoro stressante a cui i coltivatori devono sottoporsi ogni giorno.

In tutto ciò, qual è il ruolo che assume la pubblicità? Essa ha certamente un forte impatto sulle decisioni d’acquisto di un consumatore secondo i canoni della sociologia della comunicazione, o dell’economia moderna. Il messaggio che sembra trasparire dagli spot pubblicitari è sempre lo stesso: la fonte della felicità è il consumismo. La pubblicità tende a sfoggiare esageratamente le qualità di un prodotto, quasi a volerne estremizzare i pregi che si possono trarre dall’ acquisto, affinché il brand attiri a sé maggiori profitti anche in questo modo.

Guardando l’altra faccia della medaglia, si sta assistendo a un importante incremento di fair trade fashion brands come Patagonia che preferisce non definire i suoi clienti con la parola ‘consumatori’, perché scelgono saggiamente di acquistare ecosostenibile riconoscendo gli effetti negativi dell’eccessivo consumismo sulla salute del pianeta.

Non è il solo a seguire questa linea di pensiero, ce ne sono molti altri come People Tree che sono brand più piccoli e meno conosciuti in giro per il mondo, ma che stanno dando innumerevoli input per incentivare un’interazione più umana fra datori di lavoro e operai tessili, o anche fra collaboratori e partners. Si tratta di un fashion brand che ha a cuore il connubio composto dal bisogno di generare creatività, e dal riuscirci amando e rispettando la natura.

Si è potuto comprendere che il capitale economico ecosostenibile sia l’unico che valga davvero la pena accumulare nel tempo, perché non può distruggere le vite di miliardi di persone innocenti, né può mettersi nelle condizioni di danneggiare l’ambiente in alcun modo. L’haute couture costituirà sempre la pole position della moda, ma non avendo tutti le stesse capacità economiche, l’alternativa potrebbe essere fare shopping nelle fashion boutique locali 100% made in Italy, contribuendo con efficienza allo sviluppo del commercio nel nostro paese.

Quanto prima le generazioni future realizzeranno che è conveniente acquistare moda etica e sostenibile, tanto più vicina sarà la fine del fast fashion come un capitolo chiuso nel dimenticatoio.

Elena Maria Colizzi

 

“questo articolo rappresenta l’opinione dell’autore espressa sotto la propria piena responsabilità”.